Questo libro è una storia di famiglia, anzi, di famiglie. La famiglia di Gian Carlo Caselli, costretto a vivere sotto scorta come lui fin dal 1974. La famiglia dell’ufficio Istruzione di Torino, cioè il primo pool d’Italia, quello antiterrorismo fondato dal consigliere Mario Carassi e dal procuratore Bruno Caccia. La famiglia della procura di Palermo, che sotto la guida di Caselli rinverdì i fasti dell’altro pool, quello antimafia di Chinnici e Caponnetto, Falcone, Borsellino.
Ma questo libro è soprattutto un album di famiglia. La famiglia delle classi dirigenti italiane alle prese con i suoi tre figli naturali e deformi: il terrorismo, la corruzione e la mafia. Il primo fu combattuto e vinto, perché si era rivoltato contro i suoi padri.
Il secondo e il terzo si finse di volerli combattere, illudendo i cittadini e mandando allo sbaraglio pochi magistrati, quasi “volontari”, ai quali fu revocata la delega quando stavano per farcela.
Perché la corruzione e la mafia erano figli legittimi somiglianti ai loro padri come le gocce d’acqua.
La storia di Caselli è di due guerre e una sola trincea, la scrivania di un magistrato. Dalla Torino degli anni Settanta alla Palermo dei Novanta, due guerre in difesa della democrazia. Dal processo ai capi storici delle Brigate Rosse al pentimento di Patrizio Peci, dalle stragi di Capaci e via d’Amelio all’arresto di Totò Riina e di decine di altri latitanti, passando per il caso Cossiga/Donat-Cattin e il processo a Giulio Andreotti.
“Le BR – afferma Caselli – sono state per i loro quindici anni di esistenza efficienti ma subalterne, e sono state sconfitte poichè si è riusciti a isolarle dimostrandone l’assoluta “alterità” rispetto a noi. Per la mafia invece il discorso è ancora aperto perchè non si è arrivati ad una situazione di alterità. La mafia – continua Caselli – non è “altro” rispetto a noi, ma è ancora inestricabilmente intrecciata con “pezzi” della politica, dell’economia, della cultura, delle istituzioni, della società civile. E’ questa la cosiddetta “zona grigia” che è punto di forza delle organizzazioni mafiose, spina dorsale del loro potere: ciò ne spiega la persistenza”.
Il metodo di lavoro per combattere queste guerre consiste nella specializzazione e nella centralizzazione. Lavorare cioè su una sola materia e riunire tutti i dati come in un motore di raccolta. Le possibilità di successo nelle due guerre aumentano quando si interviene contemporaneamente su tre versanti: quello tecnico-giuridico (investigativo-giudiziario); quello culturale, necessario per rendere l’opinione pubblica consapevole; e quello assolutamente fondamentale dell’aggressione non solo alle manifestazioni criminali, ma anche alle radici profonde del fenomeno.
Per il versante culturale, per il terrorismo, il momento fu quando Diego Novelli, il presidente della Regione Aldo Viglione, il presidente del Consiglio regionale Dino Sanlorenzo, il nascente sindacato di polizia, partiti, sindacati e parrocchie, tutti insieme iniziarono la stagione delle assemblee.
All’isolamento dei terroristi contribuì anche il questionario che nel febbraio 1979 venne distribuito in città e che al punto 5 invitava a segnalare elementi utili alle indagini. Il questionario per Caselli era frutto di un’idea di Giuliano Ferrara, ma Dino Sanlorenzo ne
rivendicò la paternità.
La storia della legislazione antimafia è, invece, la storia del giorno dopo.
Solo dopo gli omicidi di Pio La Torre (30 aprile 1982) e di Carlo Alberto Dalla Chiesa (3 settembre 1982), il Parlamento approvò il 416 bis, associazione a delinquere di stampo mafioso, ideata dai due martiri. Mentre il carcere duro per i mafiosi, il 41 bis, fu approvato dopo le stragi del 1992. E il pool di Falcone e Borsellino fu lasciato in pace finché i magistrati non toccarono Ciancimino,
i cugini Salvo, i Cavalieri del lavoro di Catania. Allora divennero “i professionisti dell’antimafia”, magistrati che usavano i pentiti in modo spregiudicato, che piegavano la funzione giudiziaria a finalità politiche di parte.
Calunnie che avrebbero portato all’azzeramento del metodo di lavoro del pool.
“Siamo stati a un passo dall’uscire anche dall’emergenza mafia – sostiene Caselli-, l’interminabile emergenza mafia. Ma arrivati ad un certo punto, settori consistenti dello Stato hanno preferito non vincere la partita”.
di Antonella Gilpi