“Botta e risposta” tra il giornalista esperto di mafia, Francesco La Licata, e l’onorevole e l’ex Procuratore Nazionale Antimafia, Pietro Grasso.
La conversazione prende spunto dalla cattura di Bernardo Provenzano: chi è veramente il Padrino di Cosa Nostra? Come è stato preso? e, soprattutto com’è possibile che sia rimasto clandestino per quarantatre anni?
Ed ecco perchè Grasso accetta di lasciarsi andare a una conversazione sulla mafia a tutto campo, che prende spunto da Provenzano ma travalica i confini della cronaca per addentrarsi nell’analisi del sistema mafioso, della sua contaminazione con la società civile, le istituzioni, la politica, anche quella nazionale, l’economia, le professioni.
Una panoramica su Cosa Nostra, ma anche sulla mafiosità, il virus impalpabile che riesce a trasformare una “semplice organizzazione criminale in qualcosa di unico nel mondo”. “Qualcosa – dice Grasso – di mostruoso, basti pensare alle migliaia di vittime di Cosa Nostra, a tutti i servitori dello Stato abbattuti; ma anche qualcosa di molto pericoloso per le suggestioni
che riesce a trasmettere anche a tanti buoni cittadini che si fanno traviare”.
In fondo, chissà quanti buoni cittadini, nei quarantatre anni di clandestinità, hanno protetto la libertà di “Binnu u Raggiunieri” (Provenzano), preferendo immaginarselo piuttosto diverso dal “Tratturi” (Provenzano).
E persino un evidente, ottimo risultato, come la cattura del Padrino, può essere messo in dubbio e descritto alla stregua di “una concessione della mafia stessa”.
Seguendo il filo del discorso che intreccia Grasso e La Licata, si può sottolineare la dimensione che assume la strategia terroristica che uccise i vertici politici della Sicilia (Mattarella e La Torre), i vertici dell’apparato statale (Dalla Chiesa), della magistratura inquirente (Terranova, Costa, Chinnici, Falcone, Borsellino) e con loro altri carabinieri, poliziotti, giudici, sacerdoti come Don Puglisi e imprenditori come Libero Grassi. La risposta delle forse politiche, dello Stato, del popolo, fu forte e incisiva, ma non risolutiva. Non poteva esserlo perché la mafia non è una banda di criminali che si sconfigge e si distrugge con un’azione di polizia e giudiziaria.
La mafia non è un’escrescenza che si può tagliare con il bisturi.
La mafia è dentro la società, nella sua cultura, si ritrova nei metodi di governo locale e nazionale.
Ecco perchè non è con le leggi eccezionali che può essere vinta, ma con lo stato di diritto (questa fu la polemica di Leonardo Sciascia) che significa rigore in nome della legge.
Si sconfigge se le strutture sociali o politiche sono diffuse nel territorio e hanno forza e prestigio per esercitare una guida.
Si sconfigge con la battaglia culturale.
Si sconfigge se la politica acquisisce un’egemonia con comportamenti adeguati.
Quando non c’è Stato questo non c’è.
E l’opera delle forze dell’ordine e dei magistrati può solo contenere il fenomeno, ma non sconfiggerlo.
di Antonella Gilpi