Il solito delitto di mafia, misterioso e intricato, a Vigàta, cittadina fantastica e metaforica in “terra di Sicilia”, dove Camilleri ambienta il suo secondo romanzo giallo, con protagonista il commissario Montalbano.
Occhio e intelletto di giustizia, Montalbano risolve le sue inchieste, si direbbe, per affinità ambientale: e così perfettamente siciliano che ogni indizio per lui si trasforma in univoco messaggio di un codice conosciuto, da decrittare simbolo per simbolo, come una lingua arcaica che continua a parlare in forme nuove.
Ma stavolta, in coda al delitto di mafia, se ne trova un altro più conturbante e rituale: due cadaveri di giovani amanti abbracciati, nel doppio fondo di una grotta, sorvegliati da un enorme cane di terracotta.
Un omicidio di cinquant’anni prima.
E Montalbano indaga, con l’aiuto di una compagnia volenterosa di vecchietti, “un’indagine in pantofole, in case d’altri tempi, davanti a una tazza di caffè”.
La Sicilia è terra che da sempre si presta al genere giallo e poliziesco, cui fornisce il suo teatro di contrasti e di arcaismi.
Camilleri però, del giallo siciliano è, in senso proprio, un innovatore. Una grazia particolare di raccontatore, una lingua che si modula senza sforzo e fastidi sul dialetto, una potenza di comicità, ma soprattutto vi aggiunge l’intuizione completa dei nuovi scenari, quel miscuglio di culture millenarie con ciò che i sociologi denominano
“modernizzazione senza sviluppo”.
di Antonella Gilpi