“Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza, ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere”.
Così inizia il romanzo di Giovanni Verga che muovendo dal concetto che la vita è la lotta per l’esistenza e conseguentemente contrasto di classi sociali, che gli affetti, le passioni, i sentimenti umani hanno origine da questa lotta, descrisse la vita della natia Sicilia, di quelle classi sociali ove le fondamentali leggi economiche che regolano la vita gli parevano rivelarsi con assoluta evidenza.
E rappresentò il dramma quotidiano delle popolazioni della Sicilia: ne rivelò le sofferenze, le angoscie, le pene, la profonda umanità; rappresentò gli umiliati e gli offesi, abbandonati e senza speranza sullo sfondo di una natura arsa e avara, le folle schiacciate da un nemico senza volto, lo Stato che strappa i figli e il pane, custodi di un loro ideale patrimonio, di una religione antica costruita su una secolare condizione di miseria: la religione della famiglia e dell’amore, della roba, di una tradizione formatasi attraverso la lotta per l’esistenza; rappresentò l’inutile lotta di coloro che per brama del meglio, tentano di evadere dalla stabile condizione di miseria e finiscono nella più disperata solitudine umana.
Così nei Malavoglia sono descritti i rancori, le pene, le miserie, le speranze, le lacrime di un intero villaggio di pescatori, povera gente che tribola, sempre pericolante sull’orlo della sventura e della fame.
Mutati i costumi e mutate le situazioni, la gente dei Malavoglia è la stessa delle altre opere di Verga. Una misera umanità di diseredati e di afflitti, di umiliati e di offesi, senza aurora di riscatto.
Antonella Gilpi