La polemica borghese contro l’aristocrazia corrotta e moralmente indisciplinata, e la difficoltà a entrare in relazione con i ceti più bassi, la massa dei poveri e dei derelitti, è chiara in “David Copperfield”.
Dickens si cala con grande autonomia creativa nei personaggi, nelle situazioni, nel tessuto narrativo in nome di una rappresentazione totale e polifonica della realtà contemporanea in cui il tragico e il comico si alternano e sovrappongono con la stessa energia verbale degna di Shakespeare, con cui si mescolano storie individuali, grandi temi sociali, riflessioni sull’identità inglese e sulla stessa forma narrativa.
David Copperfield fu pubblicato a puntate in venti fascicoli mensili (l’ultimo, secondo consuetudine, doppio) dal maggio 1849 al novembre 1850 e immediatamente riproposto in volume.
L’autore utilizza il personaggio narratore, che racconta la propria vita dal giorno della nascita fino al momento della sua affermazione come uomo, più ancora che come scrittore, colloca l’opera nell’ambito del genere dell’autobiografia immaginaria – un’invenzione romanzesca, che non esclude concreti riferimenti ad alcuni episodi della vita dell’autore – caro alla cultura vittoriana.
L’autore ha voluto toccare alcuni punti oscuri e dolorosi della sua esistenza, come ad esempio il breve periodo del 1824, in cui a dodici anni era stato mandato a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe, e poi si ritrova a sciacquare bottiglie recuperate dalle navi in transito in un tetro locale vicino al Tamigi.
Nonostante la profezia della sua levatrice, secondo cui egli essendo nato “di venerdì e nel cuore della notte” avrebbe avuto il privilegio di vedere fantasmi e spiriti, Dickens afferma che non ne ha ancora incontrati.
“Cieco, cieco, cieco” gli direbbe ancora una volta la sua zia Betsey: di fantasmi e di spiriti, sia pure in senso metaforico, è avvolta l’esistenza individuale di Charles Dickens, come quella della sua Inghilterra.
Antonella Gilpi