“Assalto alla Giustizia” si compone di nove capitoli, che spaziano dal folto catalogo degli epiteti scagliati sui magistrati più rigorosi: golpisti, malati di mente, eversivi, cancro da estirpare; fino ai manifesti elettorali che intimavano “Fuori le BR dalle procure”. Ma più grave è stato l’impegno del parlamento nel difendere interessi particolari attraverso iniziative vestite da riforme “epocali” della giustizia: il processo prima “breve” e poi “lungo”, la “prescrizione breve”, la separazione delle carriere.
Obiettivo: ridurre l’indipendenza della magistratura, consegnare al potere politico il controllo delle indagini.
Un sabotaggio istituzionale che Caselli documenta con passione nel suo libro, avvertendo che il problema della legalità in Italia non è nato con Berlusconi e non si esaurisce con la sua vicenda politica.
Di volta in volta Caselli durante la sua carriera si è sentito accusare di essere il “servo sciocco di Dalla Chiesa” contro il terrorismo, “comunista” e “toga rossa” contro la mafia, o addirittura “mafioso” contro le bombe carta delle frange estremiste in Val di Susa.
Nel capitolo sulla lotta alla Mafia Caselli dichiara che “ogni tanto in effetti si ha la sensazione che il Paese torni anche inconsciamente alla vecchia, rassicurante idea di una convivenza possibile, sembra soprattutto che questa tentazione ce l’abbia la politica, dimentica che questo Paese ha corso il rischio di vedere messa in ginocchio la sua democrazia sotto i colpi dell’assalto mafioso (che era soprattutto l’assalto alla “giustizia” di una democrazia).
Per questo non possiamo mai dimenticare quando si parla di mafia, che cosa successe in quei terribili anni, tra il 1992 e il 1993.
Le inchieste sulle stragi dovettero affrontare non pochi ostacoli come chiedersi se vi furono mandanti esterni, trattative o accordi con forze e personaggi facenti parte di quel multiforme sistema criminale.
E non va dimenticato che in quegli anni la democrazia contro cui tramavano è stata letteralmente salvata dai tanti che sono rimasti fedeli alla Costituzione. Si trattò di un attacco di violenza inaudita indirizzato al cuore delle istituzioni che rischiò concretamente di trasformare l’Italia – senza ritorno – in un nuovo-Stato o in uno Stato-mafia.
Eppure allora, con il concorso di molti: forze dell’ordine, magistratura, società civile dei “lenzuoli”, giornalisti e uomini politici responsabili, si è riusciti a risollevare la testa e a non soccombere alla prepotenza criminale, che sembrava inarrestabile, della mafia stragista.
Tra gli ostacoli che i magistrati dovettero affrontare ricordiamo le parole di Giovanni Falcone che scrisse a metà degli anni Ottanta, constatando che restavano senza risposta le sue pressanti richieste di una normativa che regolasse la materia dei pentiti: “Se è vero, come vero, -scrisse Falcone- che una delle cause principali se non la principale, dell’attuale strapotere della criminalità mafiosa risiede negli inquietanti suoi rapporti col mondo della politica e con centri di potere extra-istituzionale, potrebbe sorgere il sospetto, nella perdurante inerzia nell’affrontare i problemi del pentitismo, che in realtà non si voglia far luce sui troppi, inquietanti untori di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”.
Numerosi slogan, durante e dopo le inchieste di mafia furono inventati per svilire un’attività giudiziaria doverosa a capitolo di un gioco della politica: in cui i magistrati sarebbero semplici pedine, asservite a strategie eterodirette e finalizzate alla supremazia di una parte contro l’altra.
Caselli si chiede ironicamente: “Si può davvero pensare che i rapporti fra mafia e politica – in Italia, in Sicilia – siano un’invenzione interessata?”
di Antonella Gilpi