di Simone Tarditi studente Dams, in collaborazione con la Redazione di Torino Click
In una commistione di free jazz, prog e qualche accenno di doom, gli americani Snakeoil hanno sparso inquietudine e sconcerto nel Teatro Piccolo Regio. Capitanata dal sassofonista Tim Berne, che ha deliziato il pubblico anche con una semi-perfetta parlantina italiana, il quintetto non solo si è mosso fuori dai canonici schemi del jazz, ma si è collocato in una dimensione “oltre”.
Quello che da critici e giornalisti è stato annunciato come uno degli eventi di punta di questa edizione del Torino Jazz Festival, non ha deluso le aspettative dei fan della band, ma ha lasciato perplessi coloro che si aspettavano un classico concerto jazz.
Le trame sonore dei singoli strumenti possono essere sembrate all’apparenza disgiunte, quasi come se ognuno dei musicisti stesse suonando per se stesso, ma la loro unione e la fusione hanno costituito pezzi solidissimi e dalla forte componente evocativa.
Non è stato frastuono quello degli Snakeoil, ma un’esperienza musicale nuova volta ad abbattere le barriere della concezione classica che si può avere del jazz per cercare una strada nuova, non ancora esplorata. D’altronde, anche John Coltrane negli ultimissimi anni della sua carriera (1965-1967) provò un innovativo percorso musicale, portando il suo jazz su di un altro livello, non solo circondandosi di nuovi strumentisti, ma testando i limiti di se stesso e degli strumenti (clarinetto e sassofono) che aveva sempre usato. E la via che hanno intrapreso gli Snakeoil idealmente non è poi così diversa da quella di Coltrane.